Elena dʼAosta, la duchessa “di ferro” e il “bianco esercito” delle Crocerossine

1 - Elena dʼAosta, la duchessa di ferro e il bianco esercito delle Crocerossine

Da settembre 1915 e fino a Caporetto, la “cabina di regia” del minuscolo esercito delle infermiere volontarie della Croce Rossa trovò sede a San Giorgio di Nogaro, nella villa di proprietà dell’ammiraglio Ciro Canciani: un’antica abitazione nobiliare di origini seicentesche (ora diventata centro culturale e sede della Biblioteca Comunale), che prenderà il nome dalla moglie dello stesso ammiraglio Dora Celotti. Villa Canciani fu dunque la residenza temporanea scelta da Elena d’Aosta, dall’aprile 1915 ispettrice nazionale del Corpo delle infermiere volontarie, per stare il più possibile vicino alle “sue” crocerossine, durante la loro prima vera esperienza sul campo. La scelta di risiedere nel più importante centro sanitario militare della Bassa Friulana le permise anche di essere accanto al marito Emanuele Filiberto, che risiedeva stabilmente a distanza di pochi chilometri, nella cittadina di Cervignano da poco conquistata, e precisamente nella Villa Antonelli, accanto a Villa Bresciani dove era stato posto il Comando della III Armata. In questa straordinaria e complessa missione, la duchessa fu fedelmente accompagnata da due donne di forte tempra e capacità: Emilia Anselmi Malatesta e Anna Torrigiani nata Fry.1 In particolare, Emilia Malatesta,2 dal 1915 segretaria della duchessa d’Aosta, fu l’anima dell’Ispettorato Nazionale riuscendo a gestire con successo il movimento di migliaia d’infermiere tra 443 ospedali da campo e 948 ospedali di riserva; la complicata rete comunicativa da lei principalmente gestita ha fatto spesso capo a Villa Dora, e proprio da qui sono partite centinaia di lettere con le quali venivano ordinati gli spostamenti, elargiti supporto morale, sostegno materiale, consigli e talvolta anche rimproveri alle crocerossine disseminate nelle varie strutture di soccorso e cura.

Fare la guerra è sempre stata una cosa da uomini, un fenomeno essenzialmente maschile. Il grande laboratorio dell’umano rappresentato dal Primo conflitto mondiale (M. Isnenghi) ha provocato, suo malgrado, uno sconvolgimento anche nei ruoli di genere. In una manciata di anni travolti dagli eventi, al fronte come all’interno del paese, si consumò un epocale cambiamento nelle relazioni tra uomini e donne. Tutti gli uomini in grado di combattere furono richiamati alle armi e anche l’Italia diventò quasi un immenso gineceo, dove le donne dovettero combattere una guerra parallela non meno faticosa ed estenuante, facendosi carico in solitudine di una quotidianità sconvolta. Ben presto nell’immaginario collettivo cominciò ad assumere grande rilievo la figura dell’infermiera volontaria, la crocerossina, che negli ospedali cura le ferite e sostiene in tutti i modi il dolore dei soldati.

La dirompente realtà delle Crocerossine segna la storia dell’emancipazione femminile in Italia: dal 1908, anno di fondazione del Corpo delle infermiere volontarie, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio 1915, la Croce Rossa riuscì a formare 4.000 donne

Per l’assistenza ai feriti, che arrivarono a 10 mila alla fine del conflitto. Fino al 31 dicembre 1918 le volontarie al fronte furono 1.320, con una punta massima di 720 contemporaneamente in servizio.3

Si trattò numericamente di una “minoranza intensa”, composta essenzialmente da donne di provenienza aristocratica o borghese, che non potendo agire in ambito politico (campo ermeticamente chiuso e ostile alla presenza femminile), di norma operavano nel mondo della beneficenza. La loro partecipazione segnò l’ingresso istituzionale delle donne nella storia del Regno d’Italia, pur se sempre in condizioni di subalternità: prima della partenza per il fronte, ad esempio, le crocerossine coniugate dovevano esibire l’autorizzazione del marito.

L’appartenenza alle classi socialmente privilegiate e agiate, era una pre-condizione: per il primo anno di guerra, ad esempio (solo con la circolare del 12 maggio 1916 l’Intendenza generale dell’esercito avocò gli oneri relativi), le infermiere volontarie al fronte furono costrette a provvedere autonomamente alle proprie spese di trasporto, alloggio e mantenimento.

La scena della guerra fu presto popolata da un “piccolo esercito” di donne, la cui femminilità dovette in qualche modo venire celata: niente trucco e gioielli e si doveva indossare una severa divisa capace di proteggere dagli sguardi degli uomini; il lungo e ingombrante mantello blu avvolgeva e infagottava completamente le volontarie.

Piuttosto difficile era, poi, indovinare il colore dei loro capelli raccolti in cuffie ben calate sul volto sebbene, con un pizzico di civetteria, alcune riuscissero a far intravedere qualche ricciolo ribelle. Più tardi, l’abito avrebbe acquistato un alone quasi sacro: l’immagine della crocerossina con indosso la candida veste simbolo di pace venne opposta alla morte, al dolore e al sangue versato sui campi di battaglia.

La presenza delle crocerossine provocò disorientamento nel mondo militare, “maschilista” per composizione e storia. Lo smarrimento indotto dalla lenta invasione dell’elemento femminile nel contesto della guerra mal nascondeva la vera preoccupazione: quella di un inevitabile avvicinamento tra i sessi al di fuori dei normali rapporti familiari e delle consuete forme di controllo. Una vicinanza accompagnata, soprattutto al fronte, dalla quotidiana frequentazione, dal cameratismo, dalla condivisione del dolore, talvolta della paura, che legarono in modo indissolubile i componenti di una nuova, straordinaria e allargata comunità di combattenti.

2 - Crocerossine a San Giorgio di Nogaro

Negli ospedali della Sanità Militare e della Croce Rossa insediati a San Giorgio di Nogaro e negli immediati dintorni prestarono servizio molte crocerossine provenienti da ogni parte d’Italia; grazie al diario della duchessa d’Aosta e ad alcune raccolte fotografiche è stato possibile dare nome e talvolta anche “volto” a qualcuna di loro. Le prime infermiere inviate in zona di guerra, Lydia Tesio e la marchesa Alberta Marazzani Visconti4 (che fu poi anche all’ospedale n. 238 di San Giorgio) entrarono in servizio all’ospedale militare n. 071 di Palmanova il 27 maggio 1915, solo tre giorni dopo lo scoppio del conflitto. Nella sua ricognizione del 12 giugno, l’ispettrice nazionale annoterà: «avendo fatto un corso accelerato, lavorano indefessamente come infermiere. Ne occorrono altre5

Ben presto l’ospedale di Palmanova diventò il terminale della scia di sangue che le prime battaglie dell’Isonzo avevano generato. Qualche anno dopo Lydia Tesio avrebbe scritto:

Dire del servizio prestato in quel tempo è difficile. Si faceva di tutto, secondo il momento e il maggior bisogno: sala d’operazioni, medicazioni, assistenza agli infettati: colera (non esistevano ancora, o venivano formandosi, i vari lazzaretti), meningite cerebro spinale, tetano, cancrena gassosa, alienati, eresipelatosi, tifo, ecc. ecc. Tutto ci è passato fra le mani in una ridda straziante di orrore e di morte.6

 

Il diario della duchessa, il 7 ottobre 1915, cita le prime infermiere operanti a San Giorgio di Nogaro: Bianca Mocenigo e Marianna Denti, in servizio presso l’ospedale di guerra n. 8 nella frazione di Chiarisacco, dove erano allora in cura «due malati di tifo molto gravi».7 In seguito, il 28 gennaio 1916 lo stesso diario, accanto a Bianca segnala la presenza all’ospedale n. 42 della cognata Costanza,8 entrambe appartenenti alla famiglia Mocenigo, fra le più antiche della nobiltà veneziana.

I primi passi delle crocerossine non furono certamente facili a causa degli originari pregiudizi nei confronti delle donne, della mancanza di quadri dirigenti e, soprattutto, della fragilità del progetto di riferimento in via di costruzione e capace di orientare le scelte necessarie direttamente sul campo: «Non mi rivolgo più al nostro Presidente perché non voglio ricevere altre lettere d’insolenze»9, scriveva esasperata Costanza Mocenigo a Emilia Anselmi mentre allestiva un ospedale.

Negli ultimi mesi del 1915 prestò servizio all’ospedale n. 5 di San Giorgio Graziella del Bono: nata a Parma nel 1889 e diplomata infermiera nel 1913, fu al fronte, sui treni-ospedale e nel dopoguerra a Pola, per assistere la popolazione del luogo. Figlia dell’ammiraglio Alberto del Bono, ministro della Marina dal luglio 1917, lavorò a lungo in solitudine presso l’ospedale sangiorgino. Dotata d’indubbio temperamento, Graziella descrisse con crudezza e vivacità le condizioni tragiche in cui spesso le infermiere dovevano operare, come non mancò di esprimere qualcosa di più di una velata critica nei confronti della gestione politica del conflitto, come nella lettera del 13 marzo 1916:

Da ieri il cannone tuona incessantemente da Gorizia al mare. Rimarremo con quattro soli feriti che non possono muoversi ad attendere i nuovi. Un ufficiale che veniva da San Pietro Isonzo [sic] ieri sera mi disse che è un inferno laggiù […] a Roma i deputati perdono tempo a Montecitorio, qui si va allegramente all’altro mondo!.10

 

Trasferita all’ospedale n. 5 di Soleschiano di Ronchi, uno degli ospedali più avanzati e quindi esposti all’artiglieria nemica, restò accanto ai feriti per quattro giorni consecutivi di bombardamenti, ottenendo per questo la medaglia di bronzo.

All’ospedale n. 39 (scuole elementari di San Giorgio) operò per circa due mesi (settembre/ottobre 1916) l’infermiera Antonia Goltara11 che in seguito condividerà l’esperienza della più nota Sita Meyer Camperio – considerata la fondatrice delle scuole per infermiere della Croce Rossa – nell’ospedale di Sagrado. 

Ancora all’ospedale n. 8 lavorarono le infermiere Ketty De Fontana12 e le sorelle Gina e Lina Bonacorsi, figlie di un medico di Cremona. In particolare Lina, che dal 1 dicembre 1915 lavorò anche nel laboratorio batteriologico, è ricordata nel diario della duchessa d’Aosta: «Mi son fermata a visitare il Gabinetto dove lavora un’infermiera studentessa di Medicina al terzo anno dell’Università di Pavia (ha 22 anni).» (18 febbraio 1916)13

All’ospedale n. 238 lavorò anche per alcuni mesi (fino a metà maggio 1916) Adalgisa Angelini di Torre Sabina; poi trasferita in montagna, a Piano d’Arta nell’ospedale da campo n. 96. Da febbraio 1917 passò all’ospedale n. 093 di Cormons «che era a portata di tiro delle artiglierie nemiche che avevano inquadrato i magazzini del Genio, vicini all’ospedale; ebbe una prima medaglia d’argento per i bombardamenti del 29-30 maggio 1917; il 21 agosto l’ospedale fu colpito più volte e sventrato e Adalgisa rimase lì finché tutti i ricoverati furono messi in salvo».14

A Villanova di San Giorgio (ospedale n. 16) operò un’infermiera bolognese, Natalina Farella, veterana del terremoto della Marsica che stette dal 26 aprile al 1 settembre 1916 per poi passare nel 1917 al n. 3 di Trevignano.15

Elodia Morteani, udinese, aveva avuto nel novembre 1915 una medaglia di bronzo per essere rimasta nello stesso ospedale n. 16 sotto un bombardamento, assieme a Elena Rietti, crocerossina di Firenze, che ebbe la medaglia con la stessa motivazione. 16

Carla Pages era infermiera volontaria fin dal 1907 e nelle prime settimane di guerra aveva prestato servizio sul treno-ospedale della Marina a Brindisi e poi su quelli che dal fronte portavano i feriti negli ospedali territoriali, finchè nel settembre 1915 la duchessa la volle a dirigere l’ospedale n. 39 a San Giorgio di Nogaro, uno dei più importanti della III Armata. Qui nel 1916 meritò la medaglia di bronzo per il coraggio e la calma con cui rimase con gli infermi sotto un bombardamento, tranquillizzandoli con il suo contegno. In seguito andò a dirigere l’ospedale voluto dalla regina Margherita, ma dopo poco la duchessa la pose a capo dell’Ufficio per il movimento delle infermiere della CRI nella zona di guerra. Anche Artemisia Zuccarini era una “veterana”; romana, aveva iniziato durante il terremoto di Messina nel 1908 e nel giugno 1915 aveva assistito i feriti nel treno ospedale n. 21, fino a settembre, quando la duchessa l’aveva voluta all’ospedale n. 39 della CRI a San Giorgio. Passò poi negli ospedaletti più a ridosso delle prime linee e al momento della ritirata seguita a Caporetto, si trovava in un ospedale sotto il tiro delle artiglierie nella zona di Cividale e fu l’ultima a lasciarlo dopo averne attuato lo sgombero, meritandosi una medaglia di bronzo.17

All’ospedale n. 34 (Palazzat) lavorò da settembre fino a dicembre 1916 Elsa Dallolio (1890_) figlia del generale Alfredo, personalità di spicco del mondo culturale italiano, intrattenne rapporti amichevoli con Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti-Bianco; ebbe inoltre una fitta corrispondenza con Giani Stuparich – medaglia d’oro della Grande guerra e autore di Ritorneranno, definito da Giorgio Petrocchi «Il più bel libro che la letteratura italiana abbia consacrato alla guerra ’15-‘18», e ancora con altri intellettuali quali Benedetto Croce e Manara Valgimigli.18 Dopo essersi ammalata di polmonite all’ospedale militare di riserva di Tolmezzo nell’inverno 1915, fu costretta a tornare a Roma, dove ebbe comunque modo di affinare le sue competenze sanitarie. Tornata al fronte, lavorò negli ospedali di Aquileia accanto alla sorella Bice, e quindi a San Giorgio, per poi passare all’ospedale da campo n. 34 a Pocol di Cortina, ed essere quindi insignita della medaglia di bronzo. Da Aquileia-San Giorgio scriverà a Zanotti-Bianco:

La lascio in fretta perché mi chiamano per operare. Brutto mestiere il mio e, quel che è peggio, lo imparo sempre meglio. Qualche volta penso con invidia alla classica infermiera con il fiore in una mano, un bicchiere d’acqua nell’altra, lacrime e svenevolezze a disposizione: figuranti nella tragedia e non attori. Era meglio nascere così, e non essere “tecnici” che devono avere la mente lucida e nervi di ferro… Mi domando se tornerò mai a vivere fuori dall’incubo.19

3 - Marianna Denti di Piraino

Forse la figura più intensa fra le crocerossine che popolarono gli ospedali di San Giorgio fu Marianna Denti di Piraino (1874-1944),20 singolare figura di donna energica e coraggiosa, che racconterà di sé nel 1935 nell’autobiografia Soltanto per i miei amici. Con grande onestà intellettuale Marianna spogliò il proprio impegno d’infermiera da ogni trionfalismo retorico: «Ho passato tutta la guerra negli ospedali per egoismo. Per sopportare nel miglior modo, dedicandomi a quel lavoro, le ansie per il Paese e per la vita dei mei cari».21  In servizio all’ospedale n. 8 di San Giorgio dal settembre 1915 (e per lunghi periodi anche da sola), vi restò per quasi un anno:

Oh quelle ambulanze che, sulla porta dell’ospedale scaricano tutte quelle barelle rosse di sangue… creature senza braccia, con le gambe stroncate, col viso tutto bruciato! Alle volte nelle barelle non si trova che un cadavere […]. Nell’Ospedale di S. Giorgio cominciai a vedere lo strazio della guerra! L’Ospedaletto era impiantato in una osteria. La corsia più grande era il granaio della casa. Le incursioni aeree erano continue, quasi tutte le notti. S. Giorgio era nodo ferroviario, era deposito di munizioni, e vi era agglomerata tanta gioventù che frequentava l’Università Castrense. Si capisce che fosse preso di mira. […] Durante i combattimenti bisognava rincuorar tanto i poveri feriti. Per quelle povere creature doloranti, l’ospedale rappresentava la tranquillità, la sicurezza. Invece le incursioni aeree riportavano il pericolo su di loro, e per di più, sulla loro impotenza, sullo strazio della loro carne. Tutte le notti le passavamo in piedi ad incoraggiare quei poveri giovani, a rassicurarli, finché la campana della chiesa non avvertiva che gli aereoplani [sic] si erano allontanati. […]. Che merito avevo a non aver paura? Purtroppo, nessuno! Forse, avrei avuto merito a compatire quelli che «morivano dalla paura». Ma anche questo mi mancava. Un giorno (l’incursione era in pieno giorno) dalla porta del mio ospedale assistetti ad un orrendo spettacolo: un soldato usciva terrorizzato dal suo ospedale poco lontano dal mio, e correva come un pazzo verso la campagna. Una bomba cadde… vidi una fiamma… sentii un gran scoppio… quel disgraziato con c’era più! Il Commissario dell’Ospedale, un «cuor di leone», era accanto a me. In quel momento impressionante ebbe bisogno di dar sfogo ai suoi sentimenti, e non potendo far altro, si volse a me, quasi con furore, dicendo: «Vorrei sapere perché Lei che potrebbe stare a casa sua è qui esposta a questi pericoli». Ed io: «Per far da contrappeso a quelli che devono starci e non vorrebbero esserci.»22

 

Negli ospedali la convivenza fra volontarie e il personale medico e ausiliario aveva molti momenti di frizione. Oltre che con le paure del commissario dell’ospedale, Marianna Denti dovette fare i conti anche con le paure del soldato che le era stato assegnato di supporto:

Una notte, durante un attacco aereo, ero nella corsia dell’ultimo piano dell’Ospedale cercando di tener calmi e distratti i poveri feriti. Chiarolanza era di guardia nella corsia; ma teneva d’occhio la scala, pronto a scappare. Io tenevo d’occhio lui, e lo chiamavo spesso per far qualcosa e tenerlo occupato. Ma ad un tratto, ad un forte scoppio molto vicino a noi, Chiarolanza si precipita verso la scala. Io lo chiamo con voce tuonante e gli dico: “Sta fermo qui, devi stare dove sono io”. E allora quel povero paurosone, quasi piangendo mi dice: “Eccellenza (non mi aveva mai chiamata così) tu sei ‘truvista’ [leggi: altruista] lo so; anche il Capitano lo dice; ma io non lo sono niente.23

4 - Io sto bene, così spero di voi: lʼiconografia dei malati

Le testimonianze delle crocerossine svelano realtà dolorose che tuttavia trovano scarsa rappresentazione nei materiali iconografici che raccontano per immagini la guerra e la cura a San Giorgio di Nogaro. Se si eccettuano le fotografie scattate al prof. Antonio Dionisi circondato dagli studenti al tavolo anatomico,  s’intuisce come anche qui si sia verificata una sorta di censura e auto-censura; quasi una rimozione selettiva finalizzata a restituire una rappresentazione rassicurante dello sforzo di cura del sistema sanitario militare, incarnato soprattutto nell’immagine delle crocerossine. I soldati feriti o malati ravvisavano nelle infermiere il volto umano della patria, in questo senso esse furono immensamente utili, molto più dell’attività dello sforzo comunicativo e propagandistico messo in atto dopo Caporetto dall’apposito Ufficio Propaganda (comunemente chiamato Ufficio P.).

Ciò che la censura bloccò per sempre fu l’iconografia che rappresentava la tragedia della morte – i corpi abbandonati sui campi, le parti mutilate, i cadaveri che non potevano essere riconosciuti perché ormai ridotti a brandelli di carne: tutto quello che poteva suscitare spavento, disgusto, orrore era vietato. Le foto che si inviavano ai giornali erano di feriti, certo, ma già sistemati in camerate e curati, o foto scattate in sala operatoria che erano però simili ai tableaux vivants dell’Ottocento: mentre lassù, negli ospedali, la vita era ben poca. 24   

Anche le fotografie scattate a San Giorgio di Nogaro al tempo dell’Università Castrense – con malati e assistenti evidentemente in posa – tradiscono soprattutto la volontà di comunicare alle famiglie lontane dei soldati ricoverati un esplicito messaggio di rassicurazione e di conforto sulle condizioni di cura e di assistenza ricevute nell’ospedale. L’ordine dei letti, la pulizia e l’assoluto lindore di lenzuola e coperte (chiaramente appena uscite “di bucato”), l’assenza di segni evidenti di ferite e soprattutto di sangue, gli sguardi sereni dei militari sembrano esprimere visivamente lo stesso messaggio rassicurante della formula di apertura preferita dai soldati nelle loro lettere a famigliari e amici: «Io sto bene e così spero di voi». Si tratta di una frase convenzionale nella corrispondenza dell’epoca, ma che in quelle circostanze ha una funzione precisa e importante: rassicurare immediatamente l’interlocutore (soprattutto quando questo è la madre o la moglie) sul fatto che si è ancora vivi.