Lʼentrata in guerra dellʼItalia e le prime emergenze sanitarie

1 - Lʼantefatto: alle tre di notte del 24 maggio 1915, un colpo sparato nella Laguna di Marano…

I colpi sparati nella notte tra il 23 e il 24 maggio 1915 dal cacciatorpediniere italiano Zeffiro contro il presidio di Porto Buso alla foce dell’Aussa, ultima sentinella austriaca nella laguna di Grado e Marano, sul confine liquido con l’Italia, posero la parola «fine» anche alla periferica belle époque di San Giorgio di Nogaro; cittadina posta al centro della Bassa Friulana. Gli eventi del mondo ‘grande’ erano così precipitati anche su questo mondo ‘piccolo’1: essenzialmente uno snodo comunicativo stradale, ferroviario e portuale collegato al mare attraverso la laguna di Marano. L’essere sulla frontiera aveva reso San Giorgio di Nogaro strategica dal punto di vista geografico e ciò aveva contribuito a farne una realtà in forte espansione economica, con ampi spazi acquisiti al centro storico e non ancora urbanizzati. Queste condizioni preliminari fecero in modo che allo scoppio della guerra, le vaste aree agibili potessero essere adibite a insediamenti militari, così che San Giorgio fu trasformata in una grande città-ospedale, diffusa a larghe maglie su tutto il territorio; condizione che a sua volta fu determinante per il successivo insediamento (1916-1917) di un campus universitario-militare di Medicina e chirurgia: la cosiddetta Università Castrense.

Nei chiaroscuri di un’esperienza liminare, consentita dalle pressanti emergenze sanitarie di una guerra-carnaio, questa Scuola al campo avrebbe dato all’Italia una nuova generazione di medici formati in un breve e serrato percorso terminale di studi, permeato da un inedito intreccio tra l’insegnamento teorico e un approccio pratico-esperienziale a una casistica di malattie, ferite, traumi, corpi che, per numero e varietà, nessuna università italiana era stata fino allora in grado di poter affrontare.

A maggio 1917 l’Università Castrense di Padova, che aveva inglobato come propria sezione staccata anche i corsi di San Giorgio di Nogaro, laureò 534 nuovi medici (rispettivamente 467 studenti frequentanti la sede friulana e 67 quella patavina); un numero significativo, considerato che nell’anno accademico 1913-1914 l’intero sistema delle università italiane aveva conferito 656 lauree in Medicina,2 su un numero complessivo di circa 4.500 iscritti.

2 - Uomini ritratti nelle trincee/come lumache nel loro guscio3

Nel momento in cui deflagra, la convinzione diffusa è che sarà un conflitto breve, quasi indolore. Di breve la guerra, però, avrà solo il tempo di impantanarsi, diventando la Grande Guerra (quasi una sorta d’infinito non finire), che trasformerà nell’arco di pochi mesi anche il microcosmo di San Giorgio di Nogaro in arsenale della III Armata dotato di uffici militari, dormitori per soldati, depositi di vettovaglie e di mezzi e soprattutto di strutture sanitarie, con una capacità valutata all’acme del conflitto in circa 3.000 posti-letto, in una realtà con una popolazione di circa 6.400 unità. Il paese, pur di retrovia, aveva la guerra in casa. Guerra portata dentro dai corpi devastati di migliaia di soldati che gli ospedali cercavano di riparare per poi restituirli al fronte; pezzi di carne aggiustata rimandati al cospetto di una morte quasi certa e già intuita nei lettini di quegli stessi ospedali, sentendo i boati dei cannoni che sparavano sul Carso e intravedendo i bagliori dei combattimenti durante le ripetute incursioni aeree subite da San Giorgio.

Su questo paese di retrovia, infatti, veniva incanalata parte consistente della sequenza dei feriti nelle battaglie dell’Isonzo; battaglie che avrebbero da subito disvelato la terribile realtà della guerra ‘moderna’ e dissolto l’incauta speranza di una «facile vittoria». La Sanità Militare e la Croce Rossa Italiana furono travolte da quella dolorosa marea, così che diventò indispensabile utilizzare sempre più intensivamente anche gli studenti agli ultimi anni di medicina, la cui operatività era ormai indispensabile a supporto dei pochi ufficiali medici operanti sulla linea del fronte. All’entrata in guerra, infatti, l’Esercito italiano aveva reclutato anche gli studenti delle classi di leva, così da rendere di fatto deserte le aule di tutte le facoltà, comprese quelle di Medicina. L’organizzazione della Sanità Militare, ancora modellata sugli schemi operativi dei conflitti ottocenteschi, rivelò d’acchito la propria insufficienza numerica nei confronti delle dimensioni subito assunte dal conflitto. Paradossalmente gli eserciti e gli apparati, che erano stati addestrati e predisposti come se avessero dovuto combattere l’ultima guerra, si trovarono a scendere in campo quasi a combattere la prossima: esito micidiale di un’età di progresso tecnologico e scientifico applicato anche al campo militare.4

La Scuola di medicina e chirurgia castrense di San Giorgio di Nogaro è stata uno fra gli accorgimenti messi in campo dall’organizzazione militare italiana per tamponare il drammatico bisogno di medici causato dalla prima guerra tecnologica-industriale e di massa. I mesi di neutralità avevano consentito ai vertici civili e militari italiani di osservare la triste esperienza degli stati belligeranti e di organizzarsi, ma il vantaggio fu vanificato da molti limiti, in parte imposti dalle finanze pubbliche, in parte indotti da una mentalità militare che stentava a comprendere il carattere moderno del conflitto in corso non solo in termini di armi e tecniche di combattimento, ma anche sotto il profilo delle più elementari esigenze umanitarie e psicologiche del soldato-cittadino moderno. Provvederà la rotta di Caporetto a cambiare parzialmente la situazione, costringendo i comandi militari a prendersi meglio cura dello spirito e del corpo dei militari italiani.5

 

3 - Nella grande fornace ardente: le emergenze sanitarie delle prime battaglie dellʼIsonzo

La guerra, «prima grande esperienza collettiva del popolo italiano»,6  si apre nel maggio 1915 in un climax emergenziale: già nei giorni della prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno-7 luglio 1915), una Sanità Militare organizzata per garantire la spedalizzazione immediata massima del 20% di una singola unità, collassò su se stessa. I primi scontri misero fuori gioco il 6% complessivo delle forze italiane impiegate e, nelle brigate coinvolte nelle prime ondate offensive, la percentuale degli organici distrutti o compromessi oscillò dal 50 al 70%, mostrando anche l’affanno non tanto del modello organizzativo-funzionale della Sanità Militare, quanto la sua incapacità di tempestiva presa in cura di feriti e malati in numero drammaticamente esorbitante rispetto le previsioni.  La seconda battaglia immediatamente successiva (18 luglio – 3 agosto), registrò circa 11.000 tra morti e dispersi e 30.000 feriti: mediamente in ciascun giorno di combattimento una valanga di circa 1.800 feriti finì con l’abbattersi sulle strutture sanitarie della prima linea, per poi essere smistata il più velocemente possibile sulla filiera ospedaliera predisposta nelle retrovie e sul territorio.

In questo esordio di guerra (tra giugno e luglio 1915) nell’arco di quindici giorni, in un’area territoriale di circa trenta chilometri, «passarono molti autocarri stracarichi di feriti: soldati di fanteria insanguinati e laceri; teste, braccia e gambe fasciate, un orrore!».7  Fu un vero shock, di primo acchito velato dai silenzi e dalle minimalizzazioni della comunicazione ufficiale, come testimonia, ad esempio, una circolare del comandante del II corpo d’armata: «Sia bene impresso nella mente di tutti che le perdite che s’incontrano nel corso dell’azione siano rese note alle autorità superiori solo se strettamente necessario durante l’azione stessa, sempre in modo riservatissimo e mai per telegramma che non sia cifrato». Gli fa eco l’ordine del comando del 7° corpo d’armata: «I posti di medicazione, durante il combattimento, siano sistemati non in mezzo alle truppe, per evitare ai rincalzi, che attendono di portarsi in linea, un’impressione deprimente che è necessario evitare».8

Tra maggio e novembre 1915 le divisioni della III Armata operanti sul Carso registrarono la perdita di 173.000 uomini su un organico di 352.000 unità: il 44% della loro forza complessiva, mentre precipitavano le condizioni igenico-sanitarie del fronte e dei territori circostanti gravati da inediti addensamenti umani in spazi limitati. In particolare, il già precario equilibrio socio-sanitario del Friuli, territorio che scontava la maggiore arretratezza economica e produttiva di tutto il Settentrione d’Italia, fu sconvolto dal repentino arrivo di oltre un milione di uomini tra militari e apparati. La malaria, appena fronteggiata dagli interventi di bonifica e profilattici d’inizio secolo, riprese con virulenza, in particolare nelle terre del Basso Isonzo dove combatteva la III Armata, a causa degli impaludamenti delle trincee e delle buche prodotte dall’artiglieria che si riempivano d’acqua «diventando le incubatrici ideali per le larve di anofele».9 Nelle trincee: «promiscuità e contaminazione, perdita di distinzione tra uomini e cose, vita e morte, corpo e materia sono le caratteristiche dominanti del paesaggio specialmente della terra di nessuno che separa le trincee contrapposte».10

 

4 - Il colera

Una fra le prime preoccupazioni della Sanità Militare fu costituita dalle malattie epidemiche, come il colera, il tifo e il vaiolo, che, in fasi diverse infierirono fra le truppe costrette a proibitive condizioni di sopravvivenza nelle trincee, sorta di «fosse comuni».

Il colera, in particolare, inizia a diffondersi fra i soldati italiani dislocati sul Carso sin dall’estate del 1915, finché l’epidemia, anche a causa dei continui spostamenti che ostacolano la profilassi e facilitano il contagio, si estende all’intera linea della III Armata, e a parte di quella della II Armata, sino al Sabotino, propagandosi tanto fra i soldati di prima linea, che fra quelli delle retrovie, come pure fra la popolazione civile: «Una mattina uscendo dalla rimessa dove mi ero trasferito a dormire – narra lo scrittore veneto Giovanni Comisso – trovai un soldato della nostra compagnia che ritornava da un posto avanzato del Sabotino. […] Mi raccontò che lassù i soldati arsi dalla sete erano costretti a bere la propria orina e il colera era scoppiato in tutti gli accampamenti, i morti non venivano sepolti, se ne trovavano per la strada fino a pochi chilometri da Cormons».

Il numero dei contagiati e dei morti, in considerazione di una organizzazione sanitaria militare da diversi punti di vista ancora deficitaria e di superiori esigenze strategiche, appaiono assai elevati in particolare nei mesi iniziali del conflitto, almeno sino alla fine del 1915, raggiungendo un totale di 16.027 casi, di cui 4.322 con esiti letali.11

Le cinque divisioni maggiormente investite dall’epidemia di colera si ritrovarono con organici ridotti anche del 50%. Numeri “imbarazzanti” nel raffronto con le proiezioni ufficiali ante-guerra. Lo stesso Alessandro Lustig, senatore e patologo fra i più autorevoli (sarà fra i docenti della scuola di San Giorgio di Nogaro), nel libretto La Preparazione e la difesa sanitaria dell’esercito del 1915,12 aveva previsto che il numero dei malati dell’Esercito si potesse calcolare: «a 4% nei giorni di sosta, a 3-5% nei giorni di marcia».13

Anche questa discrasia di previsioni testimonia come la guerra in atto – così distante dalle proiezioni quantitative dell’illustre clinico – si stesse via via prefigurando come una sorta di «accadimento dell’impossibile»: una guerra così grande, da non poter essere immaginata prima del suo reale disvelamento. Essa si sarebbe trasformata ben presto in una lunghissima condizione forzata «[…] gravata dall’impossibilità di prevedere il domani, con il soldato [costretto] a vivere nel pantano di un limbo che diventava la frontiera tra la sopravvivenza e la morte».14

5 - La guerra breve sʼimpantana nelle trincee e diventa di posizione

Il periodo di relativa stasi dell’offensiva tra agosto e ottobre 1915 servì a far affluire i necessari rincalzi sul fronte isontino, ma anche a metabolizzare l’insospettata carica distruttiva di una guerra, ormai di logoramento e di posizione, sui corpi e sulle menti dei soldati con la conseguente implementazione dell’organizzazione sanitaria, originariamente pensata dalle Norme per gli ufficiali medici durante la campagna dell’ ispettore generale di Sanità del ministero della Guerra, generale medico Luigi Ferrero di Cavallerleone, per un conflitto di “movimento” profondamente diverso dall’inedita situazione di “trincea”.15

I primi mesi di guerra dissolsero come neve al sole l’incauta convinzione dei vertici politici e militari, in primis gli stessi Salandra e Cadorna, che i soldati sarebbero tornati a casa per festeggiare Natale (al più Pasqua 1916): e su quell’assunto di guerra breve era stata “quantitativamente” costruita l’organizzazione dell’impianto d’intervento, anche di quello sanitario peraltro già in condizioni di sofferenza a causa del recente sforzo coloniale in Libia. Si aggiungano le oggettive responsabilità politiche causate da chiusure e limiti di visione.

Fin dal periodo di «mobilitazione occulta» l’organizzazione del servizio [della sanità militare] venne modificata. All’Ispettorato di Sanità Militare, l’organo medico-legale con funzioni consultive diretto dal tenente generale medico Luigi Ferrero di Cavallerleone, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito, affidò il solo compito di sorvegliare la formazione e il funzionamento degli ospedali di riserva. Sui motivi di questo allontanamento dal fronte, gravido di conseguenze per l’andamento del servizio, non si hanno notizie. Si può però immaginare la difficoltà di lavorare con Ferrero di Cavallerleone che non solo si mise in urto con Cadorna, ma anche col presidente del Consiglio e mai vide di buon occhio l’intervento della Croce Rossa al fianco della Sanità Militare. Infatti, per sopperire alla mancanza di un organo direttivo in ambito sanitario nel punto più nevralgico del paese, per la distribuzione dei medici nelle unità sanitarie, per organizzare la complessa rete ospedaliera e varare un piano di vaccinazioni nell’esercito, il presidente del Consiglio Salandra convocò una riunione a Udine alla quale parteciparono, tra gli altri, Alberto Lutrario, direttore generale della Sanità pubblica, e lo stesso Ferrero di Cavallerleone che, temendo di vedere diminuita la sua autorità, si oppose alla proposta di decentramento fatta in quell’occasione dal capo del governo. Così, dall’agosto 1915, l’ispettore fu collocato in posizione ausiliaria senza provvedere alla sua sostituzione per tutta la durata della campagna.

Il ridimensionamento di tale figura e la redistribuzione delle sue funzioni fra vari uffici del ministero della Guerra misero il servizio in grave difficoltà. Poi le cose cominciarono a migliorare e nel settembre 1916 fu creato l’Ufficio sanitario, che da semplice sezione poco alla volta divenne una struttura importante. Finalmente, nell’ottobre 1917, con lo scopo di riunificare le competenze e rendere il lavoro più coordinato, l’Ufficio fu trasformato in Direzione generale di Sanità Militare.16

Centrale e continuo lungo tutta la durata della guerra – quasi un’anomalia – fu il ruolo del direttore generale della Sanità Militare Francesco Della Valle, che si sottrasse al vorticoso turn over praticato dal generale Luigi Cadorna durante i ventinove mesi in cui fu al comando dell’esercito, avendo esonerato complessivamente ben 807 dei suoi ufficiali.17