Due passi in centro

Introduzione

Come spesso accade i toponimi possono raccontarci molto dei luoghi che visitiamo. Tralasciando il nome San Giorgio, santo leggendario molto diffuso e noto nel mondo cristiano, ci si può soffermare sulla suggestiva specificazione “di Nogaro”, che deriva con tutta probabilità dal latino nux, nuce “noce”.
Il noce, tra gli alberi da frutto, è quello che ha lasciato più tracce nella toponomastica del Friuli Venezia Giulia; il suffisso aro indica abbondanza, frequenza.
Non solo qui, ma ovunque, è accaduto che per costruire i paesi si siano dovuti abbattere interi boschi, mentre i nomi dei paesi hanno spesso trattenuto tracce delle denominazioni della vegetazione arborea originaria. Il noce, oltre a essere un legno molto pregiato, dava anche l’olio, in epoche in cui l’olio d’oliva era molto costoso. Possiamo, quindi, immaginare, con uno sforzo di fantasia, che agli albori questa parte di terra della Bassa friulana fosse ricca di alberi di noce e che proprio nei pressi dei boschi siano nati i primi insediamenti.

«San Giorgio di Nogaro è una città particolare. Se andiamo a curiosare fra le immagini più antiche scopriamo un luogo di grande fascino. Qualche tempo fa ho realizzato diverse fotografie dedicate alle piazze sangiorgine. È stata una sfida coinvolgente, un po’ perché una vera e propria piazza, intesa come “zona di mercato e di convegno” (per citare Gianni Bellinetti che ha curato i testi del calendario che le contiene) a San Giorgio non esiste, ma vi sono più “piazze” e mi sono divertito a cercare degli angoli un po’ più nascosti o comunque magari visti mille volte passando, ma mai guardati approfonditamente: questo potrebbe essere un buon punto di partenza per narrare l’anima della città» ci racconta Luca D’Agostino, noto fotografo sangiorgino.

E in queste parole troviamo il senso di come si debba intendere l’approccio a San Giorgio. Porsi, cioè, da un punto di vista altro, andare a scovare angoli e storie, e non fermarsi alle prime superficiali impressioni e apparenze.

E lo stesso D’Agostino ci invita a prendere come «un buon punto di partenza Villa Dora e la sua splendida Biblioteca. Magari lì ci si potrebbe informare un po’ su tutto quello che riguarda la storia di San Giorgio, a partire dalla Chiesa limitrofa e poi, in un percorso ideale, proprio dal parco della Villa ci si potrebbe spingere verso il fiume Corno per immergersi nei suoi paesaggi. Potremmo anche invitare l’ipotetico viaggiatore a farsi un giro in bicicletta sui nuovi percorsi ciclabili fin verso la fine del centro abitato di Villanova. Insomma, ne avrebbe di angoli da scoprire…».

È ascoltando e accogliendo queste parole che il breve “giro” a piedi attraverso il centro di di San Giorgio di Nogaro parte da Villa Dora, sede di una delle biblioteche comunali più belle del Friuli Venezia Giulia e punto di incontro culturale della cittadina.

Varcare il cancello della villa e inoltrarsi nell’ampio spazio dominato da ciò che resta dell’imponente albero di cedro posto al centro, non è solo entrare in un luogo di cultura, ma significa rallentare il ritmo, passeggiare invece che correre, prendersi un momento per stare con altre persone oppure con se stessi per riflettere.

Sulla destra c’è la vecchia barchessa, messa a nuovo e trasformata in sala convegni, utilizzata per presentazioni di libri, incontri con autori, spazio mostre, luogo dove convogliare i momenti in cui la comunità sangiorgina si riunisce per discutere, confrontarsi, ascoltare; verbi che, in questi tempi, sono vitali per poter ritrovare lo stimolo e il piacere di scambiare idee e prospettive. Per immaginare un futuro.

Sulla sinistra c’è la grande villa, che fu costruita alla fine del XVII secolo e che a quel tempo era proprietà della famiglia Novelli. All’interno conserva, nella parte centrale, traccia dell’originale decorazione seicentesca, testimoniata dalla travatura con motivi a rosette della sala a destra dell’ingresso principale. Le decorazioni del salone di rappresentanza del piano nobile, di gusto tardo-romantico, insieme alle numerose stanze con affreschi e ovali dipinti che si aprono al visitatore, fanno di questo edificio la “perla” di un intero territorio.

Ciò che rende questo luogo davvero magico è che tanta bellezza architettonica sia abitata da scaffali pieni di libri, da ricercatori e studenti che leggono e studiano, da interi spazi dedicati ai bambini e da questi intensamente vissuti.

Dopo essere passata alla famiglia dell’ammiraglio Canciani agli inizi del Novecento, la villa è stata poi suddivisa in appartamenti e abitata da diverse famiglie, fino all’acquisto, negli anni Novanta, da parte del Comune di San Giorgio di Nogaro.

Tra il 1916 e il 1917 qui fu spesso di casa Elena D’Orléans, ispettrice nazionale delle Crocerossine e moglie di Emanuele Filiberto duca d’Aosta, comandante della Terza Armata. La si vedeva assistere alla messa nella vicina chiesa della Madonna e partecipare talvolta con viva attenzione alle lezioni di Giuseppe Tusini, deus ex machina di quell’Università Castrense che ebbe sede a San Giorgio di Nogaro e che entrambi contribuirono a creare per sopperire, con la formazione di giovani medici “di qualità”, alle tragiche emergenze sanitarie provocate dalla Grande Guerra.

Usciti dal complesso, ci si imbatte nella settecentesca Chiesa di San Giorgio, detta anche Chiesa Vecchia o della Madonna Addolorata (costruita tra il 1768 e il 1798, sul sedime delle precedenti), così chiamata perché su di un altare viene custodita la sacra immagine lignea della Vergine, nella forma povera di Madonna Vestita, cioè di un manichino di legno scolpito solo nelle mani e nel volto, che condensa profondi significati identitari per la comunità, fin dalla narrazione del suo arrivo miracoloso via mare da Venezia. Durante il diciottesimo secolo, a San Giorgio scoppiò una grave epidemia che provocò la morte di oltre 150 persone. In seguito venne procurata a Venezia e quindi trasportata per mare, la statua della Madonna posta sull’altare in scioglimento del voto fatto dalla comunità sangiorgina alla Vergine durante l’epidemia del 1759. Secondo la tradizione, i marinai che avevano trasportato la statua, appena sbarcati a Porto Nogaro poterono mangiare ancora al dente il riso messo a cuocere ancora al momento della partenza da Venezia, come se l’attesa carica di fede dei sangiorgini avesse messo le ali alla barca. Per la cessazione dell’epidemia, ancora oggi, a ogni ricorrenza della festa dell’Addolorata, l’intera cittadina ringrazia con una solenne processione che accompagna attraverso il centro cittadino la statua della Madonna, riccamente adorna degli ori donati lungo due secoli dalla devozione popolare. Scrive Gilberto Ganzer, nel n. 8 (dicembre 1986) del periodico comunale «San Giorgio di Nogaro»: «Ignorata stranamente dalle guide turistiche e dai percorsi culturali, la chiesa della Madonna è ricca di preziose testimonianze artistiche […] Pochi sono infatti gli edifici cultuali friulani che possono vantare opere di così notevole pregio, come i grandi teleri absidali della chiesa, due delle più importanti opere del Seicento presenti in Friuli». Si tratta di due gigantesche tele di scuola veneziana, che nel 1887 il parroco Domenico Pancini ottenne in prestito (grazie ai buoni uffici della Regina Margherita) dal Deposito della Accademia di Belle Arti di Venezia. La prima (metri 4,90 x 6,36), collocata sulla parete a destra dell’altare maggiore «parea fatta a posta perché quasi precise erano le sue dimensioni» (Pancini) raffigura Il miracolo di una partoriente in riva al mare ed è opera di Alessandro Varotari detto “Il Padovanino” (in un angolo della tela si può leggere ancora:”Opus Varotari, 1628”). Originariamente collocato sopra il portale del Convento di Santa Maria Maggiore a Venezia, il telere pare avvolgere lo spettatore in una fantasmagoria di scene fitte di personaggi (sono ben 52 tra piccole e grandi le figure che popolano la scena) e architetture che evocano la grandiosità delle forme e i toni chiaroscurali di Tiziano.

Sulla parete opposta campeggia il secondo telere che raffigura Venezia in trono e la Giustizia che fuga i vizi, opera di Pietro Malombra (1612), originariamente collocato nell’Ufficio dei Signori della Notte del Criminale in Palazzo Ducale.

Chiediamo a Gianni Bellinetti, appassionato di storia locale, e a Claudio Maran, memoria storica della vecchia San Giorgio, quali siano i caratteri della “sangiorginità” e dell’essere sangiorgini. Sorprende sentirsi rispondere esattamente allo stesso modo, con le stesse parole: una volta c’era un legame fortissimo con la squadra di calcio e la devozione alla Madonna Addolorata che dava luogo a una comunità molto unita, soprattutto durante la processione. Sacro e profano che vanno a braccetto, come forse in ogni paese di provincia. Due mondi divisi che trovano il loro punto in comune nel rispetto reciproco delle idee. Calcio e religione: due poli che si attraggono e si respingono, tratto comune a moltissimi luoghi. Gianni Bellinetti, veneto di origine, è arrivato a San Giorgio nel 1962, e ci racconta come «agli inizi degli anni Sessanta vi si respirava un’aria cittadina ed eterogenea vista la presenza di moltissimi veneti, profughi istriani e meridionali che si spostavano al Nord. È proprio questa una caratteristica fondamentale del paese: essere crocevia, luogo di intersezioni anche tra popolazioni differenti. Il ceppo friulano delle grandi famiglie, di quando è nata la ferrovia, si è disperso, non c’è più». Per questo, forse, apparentemente San Giorgio di Nogaro non esprime un’anima unitaria, una radice profonda nel proprio territorio. Ma è altrettanto vero che l’attitudine all’accoglienza e all’integrazione definisce di per se stessa il carattere di un popolo. Come scrive Bellinetti anche nel suo libro Le mie case «il sangiorgino è uomo ‘faber’, esprime la propria personalità nel costruire, che è un modo anche di superare il pessimismo, una certa innata malinconia. Costruire è sempre una maniera per dire sì alla vita, per accettare l’umana avventura».

A scorrere le fotografie in bianco e nero del primo Novecento, si può ammirare una San Giorgio da Belle Époque che ora si fa fatica a riconoscere. Sorte, questa, di molti luoghi, in particolare della Bassa friulana. È andare alla ricerca di queste tracce passate che risulta affascinante, capire i mutamenti, cogliere le sfumature di quello che è stato.

Claudio Maran ci racconta dei giochi d’infanzia a San Giorgio, le ore trascorse in piazza, le osterie, le discussioni politiche, il fiume, la San Giorgio sotto il fascismo: pare un mondo d’altri tempi, lontanissimo dalla contemporaneità. Il suo argomentare termina con una frase netta e precisa: «Io dico, fiero a tutti, quando viaggio fuori dal Friuli, che sono sangiorgino». È questa la radice di un luogo. Quando gli abitanti, che hanno visto i grandi cambiamenti della Storia o della propria terra, ma anche i ragazzi che si ritrovano a Villa Dora o lungo il fiume, si sentono parte di una comunità.

Proseguendo e lasciando alla nostra sinistra Villa Dora, dopo un centinaio di metri in via Max di Montegnacco incontriamo Villa Vucetich – Frangipane che comprende anche i fabbricati rustici lungo vicolo Gemelli. È un’abitazione privata, quindi non visitabile, ma soltanto poter scorgere dall’esterno la bellezza dell’edificio e del parco restituisce l’immediata evidenza di come, con Villa Dora e la Chiesa “Vecchia”, Villa Vucetich sia elemento fondamentale e costitutivo del centro storico sangiorgino.

Oltrepassata Villa Vucetich e proseguendo verso la ferrovia ci imbattiamo in uno dei tanti luoghi- simbolo di San Giorgio di Nogaro con il suo significativo carico di suggestioni e di religiosità. Come spesso accade in condizioni analoghe, il luogo è evocatore di un episodio sul crinale fra realtà e leggenda.

Dopo la demolizione della cappella della famiglia Vucetich, un tempo annessa alla proprietà della Villa, la contessa Elisabetta si preoccupò di cercare un nuovo luogo di culto dove esprimere la propria devozione religiosa, che identificò in un’ancona prossima alla villa, che custodiva una statua e un quadro della Madonna da tempo immemorabile oggetto di venerazione da parte della popolazione sangiorgina. Si racconta poi che l’ancona fosse stata successivamente donata con alcune terre dalla contessa alla governante Linis, che a sua volta si era impegnata a curare fedelmente il piccolo edificio sacro. La donna e i suoi eredi prestarono fede al giuramento: e quando non bastavano gli uomini a proteggere l’edificio, interveniva il soprannaturale, come racconta un episodio che affonda nella leggenda popolare. Si narra, infatti, che in una notte di temporale un ateo, che aveva minacciato di distruggere l’ancona, fosse stato folgorato da un fulmine proprio mentre passava con un carro davanti all’immagine della Madonna. Il fulmine non sfiorò neppure il secondo conducente del carro, che proseguì indenne per la propria strada assieme al cavallo.

Nulla e nessuno poté invece contro i tedeschi che saccheggiarono il sito dopo la disfatta di Caporetto: vennero trafugati la statua, il quadro della Madonna e tutti gli ex voto dei fedeli, compreso quello che raccontava il miracolo del fulmine “selezionatore”.

L’ancona, oggi vicinissima alla ferrovia, restaurata dai proprietari e dagli abitanti del borgo, accoglie una statua della Vergine proveniente dalla Dalmazia, portata a San Giorgio da un marinaio della famiglia Turcato. Interamente rivestita d’azzurro, la statua restò dimenticata per molti anni nella soffitta degli eredi della governante Linis: i Coccolo. Fu tolta dalla soffitta, fatta restaurare e riportata alla “sua” ancona dall’anziana madre della famiglia alla quale il mare aveva strappato uno dei figli. Per questo, ancora oggi, è conosciuta come “statue dai Coccui” ed è diventata punto di devozione della gente di mare.

Il nostro percorso ci porta ora nei pressi della stazione ferroviaria, struttura strategica per lo sviluppo economico e per il panorama urbano di San Giorgio di Nogaro: il 26 agosto del 1888, data d’inaugurazione della stazione, scandisce un evento che ha davvero cambiato la storia del paese, con l’apertura del tratto che lo collegava a Palmanova, poi dismesso nel 1997. La tratta era il primo tassello di un sistema di trasporti che avrebbe trasformato San Giorgio in una sorta di crocevia. Il 31 dicembre dello stesso anno, la stazione venne collegata con quella di Portogruaro completando il tratto proveniente da Venezia. Di nove anni più tardi è la realizzazione della tratta verso Cervignano e quindi il completamento della Venezia-Trieste. In questo modo, fin dalla fine dell’Ottocento, San Giorgio si trovava a essere collegato con i due centri nevralgici dell’epoca, Venezia e Trieste, mentre quest’ultima si apriva naturalmente verso i mondi dell’Est. Fu così che San Giorgio riuscì ad assumere una specifica dimensione commerciale e di scambio, favorita in particolare dalla ferrovia a cui si aggiunse successivamente anche il casello autostradale sulla A4 Venezia-Trieste.

Nel romanzo Marina dello scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafòn, il protagonista dice ad un certo punto: «Avevo sempre pensato che le vecchie stazioni ferroviarie fossero tra i pochi luoghi magici rimasti al mondo. I fantasmi di ricordi e di addii vi si mescolano con l’inizio di centinaia di viaggi per destinazioni lontane, senza ritorno». “Se un giorno dovessi perdermi, che mi cerchino in una stazione ferroviaria” pensai».

E in effetti un paese con una stazione crocevia come San Giorgio non può che essere sinonimo di viaggi e ritorni, di ragazzi che vanno a studiare nelle città, di fughe improvvise, di abbracci a persone che sono dovute partire per trovare lontano un lavoro.

Da qui, come da moltissimi altri luoghi del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, soprattutto negli anni del Dopoguerra, centinaia di persone sono partite per il Sudamerica, la Svizzera, l’Australia o il Belgio a cercare di battere la miseria. Anche per questo la stazione non sarà mai banalmente per San Giorgio  solo “un posto” dove prendere un treno.

Lasciamo la stazione alla nostra sinistra e camminiamo lungo via Libertà fino a risalire in via Ronchi. Dopo qualche centinaio di metri, appena prima di costeggiare il Duomo, troviamo via Università Castrense che deriva il nome dall’episodio forse più importante nella vicenda storica di San Giorgio di Nogaro e da una delle esperienze più originali della Prima guerra mondiale.

Oltre la via si apre l’area delle scuole, ma risalendo verso la strada statale ci troviamo nell’incrocio principale della cittadina. Alla nostra destra il Duomo di più recente costruzione (è stato inaugurato il 18 luglio 1954 su un progetto originario dell’architetto Cesare Miani, poi rielaborato da Giacomo Della Mea), mentre di fronte, oltre la strada statale, notiamo l’edificio del Municipio del primo Novecento che richiama modi classicheggianti. Davanti, sul grande piazzale, l’ennesima fontana (la più importante del paese): al centro una grande scultura in bronzo, realizzata nel 1926 da Aurelio Mistruzzi, attraverso la quale San Giorgio ricorda i suoi caduti. La statua rappresenta un combattente che si riposa dopo la vittoria ma con gli occhi attenti quasi a controllare l’arrivo di nuove minacce. Ampliata nel 1985, su progetto del prof. Gigi Di Luca con la realizzazione di alcune ampie vasche, camminamenti sopraelevati e con l’inserimento di aiuole, è il “biglietto da visita” ufficiale con cui San Giorgio di Nogaro si presenta agli ospiti.

Chiudiamo questa breve passeggiata che taglia il centro della cittadina proprio come abbiamo cominciato, con le parole di Luca D’Agostino: «Personalmente andrei a ricercare un po’ tutte quelle istantanee che raccontino qualcosa del passato di San Giorgio. Sappiamo benissimo quanti edifici, angoli, piazze nascondono elementi interessanti dal punto di vista storico e sociale».

Ecco come scoprire San Giorgio, un paese in continua ricerca, tra passato e presente, tra quello che fu e quello che potrebbe essere in una sorta di costante ribaltamento del tempo che ci possa permettere di osservare questo territorio con occhi nuovi e curiosi.

Villa Dora nel tempo

È difficile datare l’origine di Villa Dora: si ipotizza possa sorgere su un sito già occupato da più antiche costruzioni di origine romana, o comunque legate all’antico fulcro che orbitava attorno all’attuale Chiesa della Madonna, perno di religiosità e di significati profondi, con la quale Villa Dora intrattiene da sempre un silenzioso scambio di significati e di memorie. Il complesso è attualmente costituito da due edifici: quello posto a sud-est un tempo era destinato allo stoccaggio dei prodotti agricoli, al ricovero del bestiame, e successivamente anche ad alloggio per i contadini e i braccianti della proprietà; il secondo, posto a nord, costituiva, invece, la vera e propria residenza padronale. Il sito ha subìto diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, rivelatori della volontà della famiglia Novelli di trasformare la residenza in funzione della propria mutata condizione socio-economica, che nel corso del XVII secolo segnerà una rapida ascesa (il titolo nobiliare del 1671 porrà il ‘de’ davanti al cognome). Ne scaturisce una villa di impianto veneto, con corpo centrale e braccia laterali, che staccherà da sé le funzioni che originariamente caratterizzavano l’edificio quale luogo di produzione e di lavoro. Viene quindi eliminato il magazzino prima collocato al pian terreno del corpo residenziale; quest’ultimo sarà a sua volta allontanato dal muro di cinta che dà sulla strada; la scala per raggiungere il primo piano diventa interna, viene creato un cortile d’onore con aiuola ellittica che si contrappone al cortile rustico posteriore. In questo stesso lasso di tempo si decide di orientare verso la villa la facciata principale e l’ingresso dell’antistante Chiesa di San Giorgio Martire, ruotandoli di trecentosessanta gradi rispetto la loro originaria collocazione, quasi in atteggiamento di omaggio alla nobiltà acquisita dalla famiglia De Novelli (la quale, fin dal 1671, avrà una cripta-sepolcro all’interno della chiesa stessa). Prima degli ultimi interventi di restauro, che hanno restituito l’edificio all’uso attuale di biblioteca, la divisione degli spazi interni si presentava in modi molto difformi rispetto l’impianto originale: erano, infatti, occorsi molti frazionamenti per ricavare sette alloggi autonomi con alcuni vano-scale. Anche le forme del contorno paesaggistico in cui il complesso monumentale è attualmente inserito sono solo uno sbiadito ricordo dell’impianto originale. Non si possono più ammirare i laghetti con i giochi d’acqua alimentati dal fiume e dalla Roggia dei Mulini, ormai interrata, e neppure passeggiare sul ponticello di pietra che un tempo univa due aree verdi contigue. Quel che resta del parco, disegnato secondo una tradizione (non provata da dati documentali) da Carl Junker che costruì per Massimiliano d’Asburgo lo splendido parco di Miramare, sono solo un gruppo di tunie, alcune siepi ornamentali e un viale di carpini bruscamente interrotto dal cavalcavia che porta alla zona industriale.

UNA CHIESA SOTTO LA CHIESA

Gli scavi archeologici iniziati nel giugno del 1988 all’interno della chiesa parrocchiale si proponevano di mettere in evidenza i resti di una precedente chiesa risalente al XV secolo, poi demolita per far posto all’edificio attuale. Con enorme stupore, gli scavi hanno restituito, oltre alle vestigia di una chiesa medievale, anche quelle di un edificio cultuale mosaicato e di un altro edificio sacro a esso successivo. Si è potuto, quindi, accertare l’esistenza di una chiesa tardo antica, di cui si sono conservati solamente l’abside semicircolare, di circa cinque metri di diametro, una porzione di muro dell’aula e un frammento di mosaico. Una serie di elementi comuni agli edifici sacri costruiti nel periodo compreso tra il 313 (liberalizzazione del culto cristiano attraverso l’Editto di Costantino) e le prime invasioni barbariche, non lascia dubbi interpretativi circa la collocazione temporale della chiesa, in particolare l’orientamento dell’abside verso est (ovvero verso il sorgere del sole, verso il Dio luminoso che sconfigge le tenebre) e l’assenza di navate all’interno dell’aula che ospitava i fedeli. Anche la conformazione e i colori delle tessere di mosaico rinvenute, nel quale sono riconoscibili stilemi tipici del periodo IV-V secolo d.C., confermano la datazione del pavimento attorno al V secolo, quando nel territorio aquileiese si assistette a una intensa espansione della “Buona Novella”, secondo la tradizione nel segno dell’evangelista Marco, con una conseguente attività costruttiva che vide sorgere molti edifici per il nuovo culto cristiano. L’abbandono dell’edificio è da ricondursi alle vicende del periodo immediatamente successivo alla sua costruzione, caratterizzato da continue invasioni barbariche che hanno avuto il loro culmine con la calata dei Longobardi del 568 d.C. A testimoniare questo periodo è la presenza, immediatamente sopra l’abside, delle tracce di alcuni focolari e di uno strato di terreno misto a cenere. Ben più difficile è, invece, la datazione di una seconda chiesa altomedievale (che si ipotizza rapportabile all’ VIII secolo circa), sorta sulle rovine della precedente. I pochi elementi ritrovati non permettono di valutarne con esattezza neppure la dimensione, anche se la povertà dei materiali utilizzati e l’esilità della struttura portante fanno ipotizzare che la comunità sangiorgina non vivesse un periodo particolarmente florido. Sicuramente più grande ed architettonicamente più complessa è la terza chiesa costruita sulle rovine delle precedenti. Il passaggio sotto il Capitolo di Aquileia (1031) prima e il successivo controllo politico da parte della Repubblica di Venezia (1420), contribuiscono al rilancio economico della Bassa friulana di cui anche il nuovo edificio di culto è forse una testimonianza. Ad esso appartiene anche la tomba a camera fatta presumibilmente costruire nel 1671 dalla nobile famiglia de Novelli, allora proprietaria di Villa Dora. Nel corso dello scavo sono stati rinvenuti frammenti di intonaco colorato raffiguranti volti, monete di varie epoche, medaglie votive, oggetti in metallo e vetri. In particolare è stato recuperato un anello, ribattezzato “l’anello di San Giorgio” (riconducibile alla produzione veneta dei secc. XIII-XIV) che «resta uno dei più importanti soggetti d’oreficeria profana d’epoca gotica» (Ganzer). I lavori per la costruzione della chiesa attuale, la quarta e ultima in ordine di tempo, progettata dall’ingegner Simon Malisan, iniziarono nel 1768 e terminarono nel 1798, com’è riscontrabile da alcune iscrizioni rinvenute sulle travi che costituivano la struttura in legno del soffitto. I risultati ottenuti con gli scavi hanno permesso di aggiungere nuovi importantissimi elementi alla storia di San Giorgio di Nogaro e confermare l’esistenza di una comunità già definita e attiva molto prima del 1031, anno a cui risale il documento con il quale il Patriarca Popone assegnava l’usufrutto di alcune località, tra cui San Giorgio, al Capitolo della Chiesa aquileiese contestualmente ampliato a cinquanta componenti.

Villa Vucetich – Frangipane nel tempo

Sono poche le informazioni utili a raccontare la storia di questa villa. Gli stessi eredi non possiedono alcuna documentazione a causa di un incendio sviluppatosi nel corso del Primo conflitto mondiale. Come Villa Dora, anche quest’edificio ha cambiato nei secoli la sua funzione, seguendo però un opposto itinerario. Le prime carte consultabili appartengono al catasto austriaco e risalgono al 1850: era allora proprietario il cavaliere di origine ungherese Andrea Francesco Althesty, il quale utilizzava la villa come residenza estiva. Anche il successivo proprietario, Michele Vucetich, commerciante di Trieste e originario del Montenegro, continuò a riservare all’edificio e alle sue pertinenze ambientali solo il tempo del riposo e dello svago. La villa assurse al ruolo di residenza stabile della famiglia solo allo scadere del secolo, quando il nipote Michele intuì le potenzialità di sviluppo per la propria attività imprenditoriale insite nella nuova linea ferroviaria e nella navigabilità del fiume Corno, immediatamente accessibile dal tratto che scorreva lungo i suoi possedimenti. Il catasto dell’epoca documenta l’esistenza di un edificio a tre piani con l’entrata all’angolo tra via Max di Montegnacco e via Lovar, di cui ancora oggi resta un segno nella presenza di un pilastro in laterizio. Negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale, i proprietari trasformarono in alloggi parte della stalla costruita nel 1854: il cambio di destinazione diminuì il volume del fabbricato mentre la corte agricola fu ridotta per ricavarne orti, braide e costruzioni di diverse tipologie. La Villa fu teatro di numerosi incendi: durante la Seconda guerra mondiale l’edificio fu seriamente segnato dalla distruzione del tetto, che poté essere ripristinato solo a conflitto concluso; negli anni Cinquanta l’ennesimo incendio provocò la demolizione del fienile e la successiva costruzione di un nuovo corpo abitativo anche grazie ai materiali salvati dalla distruzione. Il parco, la cui sistemazione originaria, unitamente a quella di Villa Dora, si suppone sia stata affidata al progettista dei giardini del Castello di Miramare, è stato completamente modificato e ridimensionato a causa della costruzione del cavalcavia che porta alla zona industriale. Negli anni Ottanta la zona del parco lambita dal fiume Corno è stata ceduta dai proprietari al Comune per necessità urbanistiche pubbliche.

L’Università Castrense

Nel 1915 San Giorgio di Nogaro si era trasformato in un grosso centro militare di retrovia, con depositi di grano e munizioni, dormitori, mense, ospedali, comandi e militari di ogni arma. In questo scenario prese vita una scuola da campo per gli studenti universitari dei corsi di medicina e chirurgia arruolati tra le fila dell’esercito italiano. L’idea fu del professor Giuseppe Tusini, già docente alla clinica chirurgica dell’Università di Modena e direttore, dopo l’arruolamento, del Servizio Sanitario del II Gruppo Ospedaliero della Terza Armata. La semplice quanto drammatica considerazione dalla quale partiva il progetto del professor Tusini era che la guerra costringeva gli studenti di medicina ad abbandonare i percorsi universitari. Nonostante la loro preparazione fosse incompleta, essi venivano ugualmente impegnati come medici nei campi di battaglia e presso la popolazione civile. Fu necessario, quindi, rendere più efficace la loro opera senza allontanarli dalle zone di combattimento. A San Giorgio gli studenti avrebbero appreso tecniche che «si potevano imparare soltanto in zone di guerra, dove si verificavano emergenze continue e situazioni straordinarie e dove ancora bisognava assolvere il precetto ippocratico ‘Primum non nocere’.[…]. In nessun’altra scuola come in questa può aversi uno così svariato campo di dimostrazione e di applicazione medico-chirurgica». Queste le parole pronunciate dal professor Tusini nel discorso inaugurale della scuola il 13 febbraio 1916. In poco più di due settimane il Genio Militare fece sorgere le baracche adibite a dormitorio e refettorio. L’università dispose, inoltre, della sala consiliare del Municipio adibita ad aula magna, di un’aula collettiva ricavata dalla sala Maran, di un laboratorio di anatomia istituito presso la cella mortuaria del cimitero, oltre che dell’enorme casistica medica rinvenibile nei due ospedali della sanità militare e nei sei della Croce Rossa presenti nel territorio sangiorgino. Per completare il percorso di laurea, furono ammessi gli ufficiali medici combattenti in precedenza iscritti al quarto o quinto anno della facoltà di medicina. La giornata degli studenti non aveva un attimo di respiro. «Sveglia, pulizia personale e caffè dalle 6.30 alle 7,30. Lezioni dalle 7,30 alle 12. Lezioni ed esercizi di laboratorio dalle 14 alle 18. Studio dalle 20 alle 22.30». «Fuori tuona il cannone e rombano gli aeroplani – scrive Piero Giacosa sulla rivista «La Lettura» del 1 luglio 1916 – talora un fragore di bomba caduta, ma le lezioni non si interrompono». Nonostante la sua breve vita, il solo biennio ’16-’17, l’Università Castrense di San Giorgio di Nogaro riuscì a laureare 467 medici che poterono essere impiegati nelle zone di guerra. A fine conflitto la maggior parte di loro esercitò la professione in qualità di medici condotti ma si affermarono anche specialisti di fama e docenti universitari. Presso la sala consiliare del Municipio di San Giorgio è ancora presente una lapide la cui iscrizione ricorda il sacrificio di molti di questi giovani medici che morirono in battaglia.